Due eventi militari segnano nelle Marche il processo risorgimentale: il 3 maggio 1815 la battaglia di Tolentino, il 18 settembre 1860 la battaglia di Castelfidardo. A
Tolentino ebbe luogo la sconfitta di Gioacchino Murat ad opera delle truppe austriache:
il re di Napoli, nonché cognato di Napoleone, con il proclama di Rimini (30 marzo
1815) aveva chiamato gli italiani all’indipendenza e pochi giorni prima era stato
acclamato in Ancona re d’Italia; essa è perciò considerata la prima battaglia combattuta
per l’unità e l’indipendenza dell’Italia. A Castelfidardo, invece, il generale Cialdini
sconfisse le truppe pontificie aprendo la strada all’annessione della regione nel
costituendo regno unitario e alla conquista dell’Italia centrale.
Tra i due eventi si sviluppa un periodo di attesa e di preparazione, che vede le
Marche interessate al processo, considerato che la Restaurazione non poteva essere un
puro ritorno al passato. Il cardinale Consalvi aveva nel 1816 dato il via ad un piano
riformatore dello Stato pontificio, che però ebbe dei limiti gravissimi, sia per
l’atteggiamento intransigente dei suoi delegati nella regione, sia per il malcontento e
l’opposizione della borghesia liberale, che in parte finì per alimentare le sette. Già nel
1816 era attiva ad Ascoli Piceno una sezione della Carboneria; moti rivoluzionari
scoppiarono a Macerata nel 1817, mentre i moti del 1821 e del 1831 interessarono solo
marginalmente le Marche.
Il senso di attesa e di speranza per le sorti politiche della nazione trovò appassionato
incoraggiamento nel 1846 con l’elezione del pontefice Pio IX, Giovanni Maria Mastai
Ferretti, nato da famiglia aristocratica a Senigallia, salutato come “il papa liberale”. Tali
speranze, però, rimasero in seguito deluse, poiché il papa venne a trovarsi in un
lacerante contrasto tra le funzioni di pontefice universale, vicario di Cristo, e quelle di
sovrano italiano; il che lo convinse infine a deporre i panni del capo di un movimento
rivoluzionario chiamato a condurre una guerra contro gli stessi princìpi della religione
cattolica e contro un paese come l’Austria, per giunta cattolico.
Numerosi furono comunque i marchigiani che parteciparono alle guerre del 1848.
Nel 1849, poi, le vicende della Repubblica Romana trovarono una diretta eco nelle
Marche, dove Garibaldi trasse dal Maceratese buona parte della sua legione e fu eletto
deputato di Macerata alla Costituente romana. Tra i fatti d’arme va ricordata la difesa di
Ancona assediata per terra e per mare dagli austriaci; ma non va nemmeno sottaciuta
un’azione a carattere partigiano a favore del governo pontificio, condotta da bande
irregolari, specialmente nell’Ascolano.
Anche nel “decennio di preparazione” 1850-1860 si colgono entrambi gli
atteggiamenti nella gente marchigiana: l’aspirazione all’unità nazionale, che suggeriva
istanze di cambiamento, insieme con il tradizionale scetticismo per le novità e con i forti
vincoli che la legavano al dominio pontificio.
All’inizio del settembre 1860, in concomitanza con analoghi movimenti
insurrezionali scoppiati nell’Emilia e Romagna, si diede l’avvio alla sollevazione nelle
Marche che, partita da Pergola il giorno 8, si allargò gradualmente a tutto il territorio
regionale. Essa doveva servire come pretesto all’intervento delle truppe regolari
piemontesi al comando del generale Cialdini, culminato, come si è detto, con l’evento di
Castelfidardo.
Il plebiscito del novembre 1860 sanciva definitivamente il processo di unificazione
delle Marche all’Italia. Lorenzo Valerio, piemontese, veniva nominato commissario
straordinario per le Marche. A lui si deve il definitivo assetto geografico-amministrativo
del territorio marchigiano: la regione venne divisa in quattro province (Ancona, Ascoli
Piceno, Macerata, Pesaro-Urbino). L’operazione comportò la soppressione delle
legazioni di Camerino e Fermo e, inoltre, alcune modificazioni territoriali: Gubbio
passò all’Umbria; Sassoferrato, Pergola e Visso vennero assegnati alle Marche.
All’interno stesso della regione vennero pure modificati i confini provinciali: Senigallia
passò da Pesaro ad Ancona, Fabriano e Loreto da Macerata ad Ancona, ciò per dare
maggiore consistenza e potere al capoluogo.
Nella sua relazione al ministro dell’interno del nuovo Regno (1861) il Valerio
descriveva il carattere dei marchigiani, contribuendo a codificare una serie di luoghi
comuni ancora oggi assai diffusi: li presentava come uomini pacati e gentili, aperti alle
passioni benevole, docili e rispettosi delle autorità, di intelligenza arguta, con idee
chiare, intuendo che presso di loro la cultura classica non era mai interamente perita e
non tralasciando di delineare la figura più rappresentativa della società marchigiana del
tempo: il contadino, affezionato alla terra, laborioso e morigerato, religioso ma alieno
dagli eccessi della superstizione, con i difetti della mancanza di iniziativa, della
diffidenza nei confronti dell’autorità da parte di chi poi è eccessivamente ossequioso e
obbediente per timore reverenziale, portato a chiedere grazie e favori.
Tuttavia la relazione ignorava o sottaceva altri dati messi poi in luce dalla
storiografia marchigiana del secolo scorso: le “malattie sociali” e le pestilenze che
affliggevano i contadini marchigiani, in particolare la pellagra, derivata da una fame
secolare. Il post Risorgimento, in effetti, aggravò i problemi preesistenti. L’agricoltura
dovette scontare i suoi caratteri di arretratezza e vi continuò a prevalere l’istituto della
mezzadria con una preponderanza schiacciante di benefici riservati ai proprietari,
mentre tra i contadini persisteva largamente l’analfabetismo e si registravano condizioni
miserevoli di vita. L’industria non decollò e continuò ad essere rappresentata dai
tradizionali opifici tessili, dalle cartiere di Fabriano e Pioraco, da qualche industria di
trasformazione dei prodotti agrari, come il tabacchificio di Chiaravalle. Si stavano
creando le condizioni che avrebbero portato ad un alto tasso di emigrazione.
Sul piano politico, l’inserimento delle Marche nella nuova compagine unitaria segnò
la perdita progressiva delle numerose identità locali, che avevano caratterizzato la
regione per secoli, e vide l’affermazione della massiccia presenza di una burocrazia
centralizzata e diffidente. Ciò avveniva in conseguenza dell’adozione del modello
statuale francese di diretta matrice rivoluzionaria e giacobina. Anche qui il fenomeno
del brigantaggio, con la banda Piccioni nel Sud e la banda Grossi nella parte
settentrionale, avrebbe espresso il profondo disagio delle classi popolari a fronte del
dissolvimento della società di antico regime.
Il panorama culturale marchigiano è dominato agli inizi dell’Ottocento dal
neoclassicismo, soprattutto nelle arti figurative. Si parla così di “architettura delle
legazioni” a proposito di quella corrente intesa a offrire nei palazzi pubblici e privati,
nelle chiese e nei teatri, un’immagine serena e ordinata del potere pontificio e, nello
stesso tempo, una continuità della tradizione classica e cristiana. Esemplare, in questo
senso, è la città di Macerata. Ma l’architettura della seconda metà dell’Ottocento è
dominata dalla figura di Giuseppe Sacconi, nativo di Montalto delle Marche, trasferitosi
poi a Roma, famoso soprattutto per essere stato il progettista del Vittoriano. Nelle
Marche seguì più tardi i restauri della cattedrale di S. Ciriaco di Ancona e della basilica
della Santa Casa di Loreto, dove adottò gli stilemi gotici dell’apparato decorativo.
La pittura locale, che si richiama agli assiomi neoclassicisti, ha il suo più
significativo rappresentante nell’anconetano Francesco Podesti, che nel dipinto
celebrante l’assedio di Ancona del 1173 da parte delle truppe dell’imperatore Federico
Barbarossa esalta la resistenza della città di fronte all’oppressore tedesco. La musica è
dominata dalla figura del compositore Gioachino Rossini che, se deve alla regione
buona parte della sua formazione, fu tuttavia attivo, soprattutto dopo aver raggiunto la
celebrità, al di fuori delle Marche.
Il panorama letterario si era aperto a Pesaro con le posizioni classiciste di Giulio
Perticari, genero di Vincenzo Monti. E’ in questa temperie culturale che si formarono
Giacomo Leopardi, il quale tradusse letterariamente il suo odio/amore per Recanati nel
mito del “natio borgo selvaggio”, e Terenzio Mamiani (che del Leopardi era cugino),
patriota, scrittore, politico e ministro della Pubblica Istruzione del nuovo Regno d’Italia.
Poeta minore è considerato Luigi Mercantini, nato a Ripatransone nel 1821, che
tuttavia è da annoverare tra i più conosciuti rappresentanti della lirica di ispirazione
patriottica: fu infatti l’autore de La spigolatrice di Sapri e dell’Inno di Garibaldi.