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Percorsi tematici > Costume e moda nei musei marchigiani: dal Medioevo all'Ottocento

Di fondamentale importanza per comprendere i modi di vestire nei secoli più lontani sono i documenti d’archivio e le opere figurative. Da queste fonti si evince che in età alto medievale il vestiario presentava caratteri comuni in tutta la penisola. Gli uomini indossavano una tunica legata in vita con una cintura e lunga fino al polpaccio, dalla quale spuntavano le brache, ereditate dai Romani. Per coprire le gambe si utilizzavano lunghe calze pesanti. L’abbigliamento delle donne era del tutto simile a quello degli uomini, fatta eccezione per il mantello che doveva essere sempre provvisto di cappuccio per coprire il capo e le spalle. I capi fondamentali erano la camicia, le brache, la tunica, le calze e le scarpe. Per contro, chi viveva nei castelli e nelle corti, indossava tuniche ornate da bordi ricamati e, per certe occasioni, tempestate di gemme. Matilde di Canossa, ad esempio, è raffigurata nelle miniature con un cappello a cono.  

Nel corso del Trecento l’uso del bottone segnò la fine del ‘drappeggiato’ in favore dell’abito cucito, aderente al corpo. Il Trecento segna anche l’avvento della moda cortese, frivola, civettuola e, soprattutto, destinata ad un’élite.  Le dame dell’epoca si compiacevano così nell’indossare scollate vesti con strascichi e cappelli a forma di lunghi coni ornati di velo. Contro questi eccessi si scagliavano predicatori come Bernardino da Siena e Giacomo della Marca.    

Contro l’eccessiva ostentazione già a partire dal Duecento vennero del resto emanate le cosiddette leggi suntuarie – ovvero contro il lusso -, che regolavano la lunghezza degli strascichi e la posizione e la quantità dei gioielli da indossare. Questi provvedimenti, adottati gradatamente da tutti i Comuni italiani, miravano a disciplinare l’uso di certi indumenti in funzione della gerarchia sociale, di modo che ogni cittadino vestisse in maniera appropriata al suo status sociale, onde evitare apparenze ingannevoli che potessero minare l’ordinamento generale della società. Una copiosa produzione di leggi suntuarie, si ebbe ad Ancona, Fabriano e Ascoli, dove nel corso del XV secolo venne impedito l’abuso di ornamenti d’oro.   

In effetti nei Comuni a seconda delle professioni o delle condizioni sociali veniva adottato, almeno nelle occasioni ufficiali, un diverso modo di vestire: a Bologna i medici vestivano di rosso o di nero, i giudici e i notai in nero e, quelli di minor prestigio, in grigio. I membri degli ordini laici cavallereschi si distinguevano per le insegne cucite sugli abiti, come la croce bianca dei Cavalieri di Malta. 

Segni distintivi erano imposti agli ebrei, costretti a partire dal 1215 a portare un cerchio di panno giallo o veli gialli se donne. Anche le meretrici dovevano segnalarsi con bende gialle e, in alcune città, con un copricapo al quale era appeso un sonaglio. Ad Ancona alle donne di malcostume era invece concesso di non rispettare le regole suntuarie: un apparente privilegio, che aveva lo scopo di far rispettare le norme a tutte le altre donne per non essere scambiate per prostitute. Ma, nonostante i continui richiami al rigore e al buon gusto da parte dei legislatori e degli uomini di Chiesa, donne e uomini continuarono a far sfoggio di trine, velluti, cappelli e ornamenti vari. 

Nelle corti rinascimentali era la consorte del signore a dettare la moda. Ad esempio Beatrice d’Este, moglie di Ludovico il Moro, disegnava e cuciva i propri abiti, che venivano poi imitati dalle dame milanesi. Dalle corti le tendenze si propagavano poi anche in altri centri. Milano nel Quattrocento era la capitale indiscussa della moda, seguita dalla Ferrara degli Estensi e da Bologna, città dalla  quale le tendenze si propagavano prima a Firenze e poi a Roma.  Ancona e le Marche in genere avevano, invece, stretti rapporti con Venezia, da dove provenivano tessuti bizantini ed orientali. 

Un catalogo illustrato della moda aristocratica quattrocentesca è dato dal pittore veneto Carlo Crivelli, le cui figure di santi sono vestite di preziosi tessuti e broccati decorati tipici dell’area veneziana. Nel polittico di Montefiore dell’Aso, infatti, santa Caterina è avvolta in un mantello di broccato con fili d’oro, dal quale sbuca la manica della veste di colore oro decorata con il medesimo motivo ‘a melograno’ del manto. La manica della sopraveste bordata di pelliccia è in velluto con broccature di oro filato, che creano un puntinato detto a “cielo stellato”, ottenuto inserendo nel tessuto lamine metalliche sfaccettate, che davano l’effetto ottenuto oggi  dalle paillettes. 

Nella stessa opera il mantello di Maria Maddalena è di velluto rosso foderato di seta verde, mentre  il corsetto è decorato da un motivo arabescato: l’arte della tessitura del velluto, molto sviluppata nell’area veneta, era stata oggetto nella Serenissima di leggi protezionistiche emanate tra il 1365 ed il 1370, che impedivano l’esportazione dei tessuti lavorati e l’emigrazione dei tessitori. Sul capo della Maddalena è appoggiato un veletto trattenuto da un filo di perle (detto frontale o frenello) con un rubino, pietra simbolo di illuminazione e di rinascita spirituale. Per l’abito della santa il Crivelli prese spunto dall’abito tipico delle nozze aristocratiche. 

La leziosità della moda non era, però, sempre apprezzata dagli intellettuali. Secondo Baldassare Castiglione, autore del Libro del cortegiano, scritto fra il 1518 ed il 1528, il tratto essenziale del buon cortigiano doveva essere piuttosto la disinvoltura nell’abbigliamento, di modo tale che gli altri non vedessero nella ricerca del vestito “operazione alcuna”.  

Nonostante i ciclici richiami alla sobrietà e al buon gusto che giungevano da più parti, l’avvento dell’età barocca segnò il trionfo dell’ostentazione e degli eccessi. Le nobildonne, per rispondere ai dettami della moda, indossavano busti e corsetti che esaltavano oltremodo esili vitini: Caterina de’ Medici aveva fissato la misura ideale della vita in quarantacinque centimetri, costringendo le dame al supplizio del busto di ferro. 

Uomini e donne, per sottolineare l’appartenenza ad una classe sociale elevata, portavano al collo rigide gorgiere: collari di garza e trine inamidati ed increspati ad arte, che spesso formavano un rigido ventaglio dietro il capo. Le gonne in velluto e seta erano montate su complicate impalcature di stecche di balena o di vimini. Abbigliamenti tanto elaborati ed ingombranti non potevano che essere riservati ad eccezionali eventi di corte. 

Alla fine del Seicento si impose per gli uomini l’uso della parrucca, che resistette fra i ceti abbienti fino a tutto il Settecento. Le donne, invece, preferivano elaborate acconciature torreggianti grazie al sostegno di un cuscino imbottito. A questa complessa struttura si aggiungevano capelli finti fissati con una pomata. Questa acconciatura, giacché tanto complicata, rimaneva intatta per settimane, con l’inevitabile conseguenza di albergare pulci e pidocchi. 

Un ritorno repentino ad una maggiore sobrietà si diffuse in Europa dopo la Rivoluzione francese, che segnò l’abbandono delle crinoline, dei corsetti e delle sottogonne, in favore dello Stile Impero, caratterizzato da abiti di mussola trattenuti sotto il seno ad imitazione dei pepli dell’antica Grecia, modello di una civiltà democratica.

BIBLIOGRAFIA

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- N. Bailleux, B. Remaury, Moda usi e costumi del vestire, Universale Electa/ Gallimard, Milano, 1996. 

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- S. Zuffi, Dettagli di stile: moda, costume e società nella pittura italiana, Mondadori, Milano  2004.  

Legenda

Sede museale
Pinacoteca Comunale "R. Fidanza" - MATELICA
 
Quadreria della Fondazione Cassa di Risparmio di Fano. Pinacoteca San Domenico - FANO


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