Cultura

Percorsi tematici > La nascita dei musei civici nelle Marche

In alcuni stati della penisola le soppressioni cominciarono nella seconda metà del Settecento ed ebbero particolare intensità nel periodo napoleonico. Il culmine fu però raggiunto con la “legge Rattazzi”, con la quale, nel 1855, il Regno di Sardegna soppresse gli enti ecclesiastici che non attendevano alla predicazione, all’educazione o all’assistenza degli infermi e ne affidò la gestione dei beni alla Cassa ecclesiastica. A seguito delle annessioni, la legge sarda venne estesa all’Umbria nel 1860, alle Marche e alle province napoletane nel 1861 e, dopo la costituzione del Regno d’Italia, a tutto il territorio nazionale con la liquidazione dell’asse ecclesiastico (1866/67).

Migliaia di edifici requisiti furono destinati ad usi assolutamente diversi e l’ingentissimo patrimonio storico artistico che vi aveva avuto sede fu esposto a gravi rischi di dispersione, soprattutto fin quando non trovò ricovero nei musei locali, gran parte dei quali appositamente creati per fronteggiare l’emergenza. In questi eventi, come osservato da Andrea Emiliani, è dunque insito il codice genetico degli istituti civici e provinciali, quali luoghi per la conservazione dei patrimoni delle città, considerate fulcro e principio della storia italiana.

E questa fu anche l’origine dei musei marchigiani. Marche e Umbria, prime regioni interessate dalle leggi soppressive, costituirono, anzi, una sorta di prova generale per quanto sarebbe poi avvenuto sull’intero territorio nazionale. Il decreto emanato per l’Umbria nel 1860 da Gioacchino Napoleone Pepoli e quello di Lorenzo Valerio per le Marche, del 3 gennaio 1861, avevano, naturalmente, molti tratti in comune. In particolare riprendevano il modello di museo pubblico di età napoleonica transitato nella legge sarda, che univa la funzione conservativa a quella dell’istruzione. Entrambi i decreti destinavano perciò i materiali confiscati alle accademie dei rispettivi circondari o, se non esistenti, delle province. In Umbria tutto sarebbe dovuto confluire a Perugia e nelle Marche ad Urbino, dove si voleva creare un museo che arricchisse la scuola di belle arti. 

A queste direttive si opposero fermamente gli altri centri. 

A fronte di tante rimostranze, in Umbria fu deciso, nel 1862, di assegnare le opere ai comuni di pertinenza, purché disponessero di locali adatti e destinassero sufficienti risorse per il funzionamento. Anche nelle Marche fu subito sospesa l’efficacia delle disposizioni di Valerio, penalizzando la formazione del museo di Urbino, ma non venne al contempo deciso alcun decentramento. Questa carenza legislativa, protrattasi fino al 1866, aumentò enormemente il rischio di vanificare le norme per la conservazione e per la conoscenza del patrimonio demaniato contenute nel decreto marchigiano come in quello umbro.

Superato, in Umbria e nelle Marche, il disegno centralistico di ascendenza napoleonica previsto nei decreti di Pepoli e di Valerio, si affermò l’idea di mantenere i materiali negli ambiti municipali, così originando i nuclei costitutivi dei musei civici a vantaggio di quasi tutti i comuni della nuova Italia.

Per contro, la incerta attuazione di questo programma determinò per lungo tempo un’estrema emergenza conservativa: gli oggetti mobili erano affidati all’iniziativa locale; a volte venivano dati in deposito provvisorio ai comuni e da questi ricoverati nelle sedi municipali o, come in Umbria e non nelle Marche, in ex chiese e conventi; più spesso rimanevano negli edifici requisiti e abbandonati. Perciò, e per la grande fortuna internazionale di cui godeva l’arte umbro-marchigiana, si trovarono esposti ai trafugamenti compiuti spesso dai religiosi stessi e alle incaute alienazioni da parte dalla Cassa ecclesiastica. Spesso, infatti, molti privati rivendicarono con successo la proprietà di importanti opere, vantando un diritto di giuspatronato, assai diffuso nelle Marche e in Umbria, consistente nel fatto che i propri antenati, a loro dire, ne avrebbero sostenuto i costi di realizzazione per arredare con esse le cappelle di famiglia.

E danni considerevoli patirono anche gli edifici, giacché le occupazioni da parte dei municipi e del ministero della guerra avvenivano spesso d’urgenza e le trasformazioni d’uso e le connesse modificazioni anche strutturali venivano attuate disinvoltamente e senza controlli. In modo particolarmente dannoso incideva la mancanza di accurate conoscenze circa l’entità, la qualità e la collocazione del patrimonio demaniato. 

In verità, fin dal mese di aprile del 1861 Francesco De Sanctis, ministro della pubblica istruzione, aveva incaricato Giovanni Morelli e Giovan Battista Cavalcaselle di redigere un inventario, a fini di notifica, degli oggetti d’arte nelle chiese e nei conventi degli ordini religiosi soppressi nelle Marche e nell’Umbria. I beni su cui fosse stato apposto il sigillo reale avrebbero dovuto essere considerati inalienabili. Nei sessantotto giorni del loro viaggio i due studiosi catalogarono le opere, descrivendole precisamente e indicandone la collocazione, lo stato di conservazione e il valore, e suggerirono migliori misure di protezione. Il loro sguardo, tuttavia, fu assai selettivo e indirizzato soprattutto ai dipinti.

Per redigere inventari completi e dettagliati, furono costituite apposite commissioni provinciali. L’Umbria vi provvide almeno dal 1863. Nelle Marche, invece, salvo rari casi, nulla fu fatto fino all’emanazione dei nuovi decreti soppressivi nel 1866-67. 

Finalmente la legge del 1866 e il regolamento di applicazione del 1867 stabilirono che gli oggetti d’interesse librario, archivistico, storico e artistico confluissero nelle biblioteche e nei musei pubblici delle rispettive province. Veniva così sancita tanto la proprietà quanto la destinazione pubblica dei beni requisiti, la cui conservazione doveva essere infatti finalizzata ad accrescere la “cultura nazionale”. 

Per adempiere a queste precise responsabilità conservative e di promozione della cultura e per non frammentare eccessivamente la distribuzione del patrimonio, la devoluzione avrebbe dovuto riguardare gli istituti già esistenti. Però, una volta ancora, si sollevarono gli altri comuni. Venne allora stabilito che le richieste di municipi mancanti di biblioteche o musei potevano essere accolte, ove questi dimostrassero di aver deliberato la creazione di nuovi istituti in luoghi adatti e di aver previsto sufficienti stanziamenti annuali per il funzionamento. 

L’incerto atteggiamento ministeriale fra queste due diversi indirizzi, poi ripetutosi ovunque, fu particolarmente forte nelle Marche, dove la ricchezza del patrimonio e la sostanziale equivalenza dei musei esistenti alimentarono dispute accese. 

A farne le spese fu specialmente l’Istituto di Belle Arti di Urbino, che prima ebbe ridotto il proprio ambito di competenza dall’intera regione, come stabilito da Valerio, alla sola provincia di Pesaro Urbino, quindi vide il ministero accogliere le richieste di Pesaro per i materiali del circondario, infine fu addirittura costretto ad attendere fino al 1871, per ottenere le opere dal comune di Sant’Angelo in Vado, giacché questo non era riuscito nel frattempo a costituire un proprio museo.

Anche ad Ancona l’istituzione della pinacoteca nel palazzo municipale suscitò le rivendicazioni, prontamente accolte dal ministero, di Jesi, Osimo, Senigallia e Fabriano, ai quali presto si aggiunse Sassoferrato.

Le vicende ascolane, su cui mancano studi e dettagliate notizie per la scomparsa dei documenti d’archivio, non furono presumibilmente troppo diverse, giacché, oltre alla pinacoteca di Ascoli, materiali demaniati confluirono a Fermo e in altri centri come Monterubbiano, Montalto delle Marche e Ripatransone.   

Nella provincia di Macerata solo nel capoluogo era stata aperta nel 1866 una pinacoteca. Nessuna domanda, invece, fu avanzata dagli altri municipi, fin quando, a ridosso della scadenza dei cinque anni stabiliti dalla legge per poter avanzare le richieste, non vennero sollecitati dal prefetto. Allora sorsero in breve tempo le pinacoteche di San Ginesio, San Severino, Morrovalle, Sarnano e Matelica, Camerino e Monte San Martino. Anche per lo scarso interesse dimostrato da Macerata, le istanze di alcuni di questi comuni, benché privi di musei, vennero accolte. Ma nel 1870 Macerata, avendo stanziato un fondo perpetuo a favore della pinacoteca, richiese le opere dell’intera provincia ed ebbe l’assenso del ministero, nonostante le proteste dei comuni di San Severino, Recanati e Corridonia, che istituì subito una pinacoteca per non dover cedere le opere a Macerata. Ma nel 1872, dopo che Macerata aveva ottenuto solo gli oggetti non richiesti da altri, il decreto ministeriale fu annullato. 

Pochi furono per altro i risultati concreti di tante contese. Anche quando le richieste di devoluzione venivano accettate, la costituzione dei musei comportava impegni solitamente eccessivi per i centri minori. Spesso le delibere non avevano seguito pratico, gli stanziamenti erano fittizi o momentanei, le sedi approssimativamente individuate in qualche stanza delle residenze comunali. E quando, come frequentemente avveniva, le opere non restavano nelle chiese e nei conventi requisiti, quel che si riusciva ad ottenere era non un museo, ma un semplice deposito di materiali accatastati. A Camerino, ad esempio, il progetto di pinacoteca si realizzò solo dopo l’acquisizione, nel 1888, della collezione del ramo ferrarese dei da Varano; a San Severino la pinacoteca fu pronta nel 1895 e a Recanati nel 1898; a Cingoli, Corridonia e Monte San Martino le raccolte non diventarono mai museo e le opere tornarono nelle chiese.

Pur fra tante difficoltà e fallimenti il risultato ultimo non fu di poco conto, giacché prese forma una fitta rete di istituti piccoli e medi, che, a differenza dei grandi, raccoglievano anche materiali e tipologie “minori” e, soprattutto, riflettevano la naturale diffusione geografica del patrimonio, coincidevano con l’organizzazione amministrativa del territorio e rispondevano a precise esigenze municipali. Oltre alle finalità conservative, infatti, e di educazione dei cittadini, i civici musei celebravano gli artisti locali, ai quali, come nel caso di Fabriano, spesso venivano anche intitolati, e le piccole patrie di cui erano espressione. Tutti confidavano, inoltre, di poterne avere vantaggi economici grazie alla promozione del turismo, come apertamente dichiarato, ad esempio, dal municipio di Matelica, il quale sperava che i viaggiatori, dopo aver visto i grandi musei di Urbino, Ancona, Macerata ed Ascoli, visitassero anche la sua piccola quadreria.

 

BIBLIOGRAFIA

- A. Emiliani, Museo e Museologia, in Storia d’Italia, Einaudi, vol. II, Torino, 1973, pp. 1615-1655

- A. Gioli, Monumenti e oggetti d'arte nel Regno d'Italia: il patrimonio artistico degli enti religiosi soppressi tra riuso, tutela e dispersione; inventario dei beni delle corporazioni religiose, 1860-1890, Roma, 1997

- A. Troilo, La patria e la memoria : tutela e patrimonio culturale nell'Italia unita, Milano, 2005

Legenda

Sede museale
Pinacoteca Civica "F. Podesti” e Galleria d'Arte Moderna - ANCONA
 
Pinacoteca Civica "Bruno Molajoli" - FABRIANO
 
Musei Civici di Palazzo Pianetti - JESI
 
Pinacoteca Civica - ASCOLI PICENO
 
Polo museale di San Domenico - Museo civico e archeologico – Pinacoteca civica “Girolamo di Giovanni” - CAMERINO
 
Musei Civici di Palazzo Buonaccorsi - MACERATA
 
Pinacoteca Comunale "P. Tacchi-Venturi" - SAN SEVERINO MARCHE
 
Pinacoteca Comunale e Musei Civici - SARNANO
 
Museo Archeologico e Pinacoteca del Palazzo Malatestiano - FANO
 
I Musei Civici di Palazzo Mosca - PESARO
 
Palazzo dei Priori - FERMO
 
Galleria Nazionale delle Marche - URBINO


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